30/03/2014
Centrafrica, quando la chiesa è un “ospedale da campo”
Padre Justin mette in pratica l’esortazione del Papa, ospitando più di mille musulmani nella sua parrocchia. Ha anche rischiato la vita per difenderli
DAVIDE DEMICHELISROMA
“Hamidou ha fatto più di duecento
chilometri per arrivare fino qui, a Carnot. Quando si è presentato in parrocchia
era sfinito, denutrito, disidratato, ma soprattutto terrorizzato. Hamidou ha 13
anni. Per giorni e giorni ha camminato, solo, nella foresta, e correva ogni
volta che sentiva sparare”. Padre Justin respira lungo, prima di riprendere il
racconto. Hamidou oggi è ospite della sua parrocchia, insieme a un migliaio di
musulmani. La chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda di padre Justin Nary è
l’unica di Carnot, una piccola città a poco più di cento chilometri dalla
frontiera con il Camerun. 35mila centrafricani sono fuggiti oltreconfine, in
Camerun, e 82mila in Ciad. Sono accampati nei campi profughi.
Carnot è là: sulla via che porta in
Camerun. Dieci anni fa aveva 45mila abitanti, oggi chissà. Dopo la destituzione
del presidente Djotodia, a inizio gennaio, gli islamici in Centrafrica sono
nell’occhio del ciclone. Il governo Djotodia era appoggiato dalle milizie
Seleka, in cui militavano molti fondamentalisti. Oggi tutti i musulmani stanno
pagando per le violenze di cui si sono resi colpevoli gli uomini della Seleka,
in gran parte stranieri, soprattutto ciadiani e sudanesi. A seminare il terrore
in Centrafrica ora vi sono gli Antibalaka, gli “anti machete”, che per
vendicarsi delle malefatte della Seleka colpiscono tutti i seguaci del Corano.
Ecco perché molti di loro hanno cercato rifugio nei luoghi più sicuri e
accoglienti: le parrocchie, i seminari, i conventi. Solo nella capitale, Bangui,
circa 120mila persone sono accampate in una quarantina di edifici religiosi.
Anche fuori dalla capitale varie parrocchie ospitano migliaia di islamici: a
Bossangoa, Boda, Baoro, Bossemptele e, ovviamente, Carnot.
Hamidou è uno dei tanti musulmani
costretti alla fuga. Un mese fa era a casa, con la sua famiglia, quando ha
sentito sparare. Suo padre ha urlato a lui e ai suoi fratelli di fuggire. Ha
dato loro qualche soldo e via, a gambe levate, in direzioni diverse. Hamidou ha
corso a perdifiato, finché ha potuto. Poi si è guardato indietro: era solo, nel
cuore della foresta. Allora ha capito che non aveva scelta: doveva proseguire il
cammino, la fuga. Per giorni e giorni, non sa neanche lui quanti, ha mangiato
radici e bevuto l’acqua che trovava in foresta. Poi è arrivato a Carnot, un mese
fa. Ha saputo che qui poteva trovare accoglienza, ed è subito andato in
parrocchia. Finalmente qualcuno si è preso cura di lui: l’abbé
Justin.
“E’ dalla fine di gennaio che accolgo
sfollati nella mia parrocchia. Sono in gran parte di etnia Peul e Aussa, quasi
tutti musulmani. Ovviamente la nostra porta è aperta a tutti: non facciamo
distinzioni di razza o religione”. Padre Justin non ci ha pensato due volte:
quella gente aveva bisogno. Poco importa se in città ha creato qualche malumore,
anche tra i cristiani. Qualcuno teme che fra quanti protegge, fino a 1400
persone, si siano infiltrati i miliziani in fuga. Padre Justin non sente
ragioni: “Ho svuotato le casse della chiesa, per dare da mangiare a questa
gente. Poi ho chiesto aiuto alle organizzazioni umanitarie, finalmente ci è
arrivato qualcosa. Molti cristiani portano del cibo: patate, manioca, riso. Noi
dobbiamo accogliere, aiutare! E poi, anche far sapere al mondo della guerra che
sta sconvolgendo il Centrafrica, sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutto
qui”.
Non solo. Padre Justin ha rischiato
ben più che i soldi o la reputazione, per difendere gli sfollati: “A inizio
febbraio sono arrivati gli Antibalaka. Io e il pastore protestante siamo andati
in foresta per parlare con loro, tranquillizzarli. Dopo qualche giorno però,
sono entrati comunque in città. Volevano portar via tutti i musulmani, gli
sfollati che vivono da noi, ucciderli. Mi sono opposto, abbiamo parlato a lungo,
abbiamo mangiato insieme, ho dato loro anche dei soldi”. In Centrafrica si usa
così, ma non è bastato. Un gruppo di uomini armati si è presentato in chiesa con
40 litri di benzina, minacciando di appiccare il fuoco se il prete non avesse
consegnato i musulmani o un milione di franchi cfa.
L’abbé Justin allora ha promesso di
consegnare il malloppo, appuntamento davanti alla chiesa alle 18: “Non sapevo
come fare, quei soldi non li avevo. Ho chiamato dappertutto, finché sono
riuscito a trovare un comandante della missione militare, Misca. Un convoglio
armato doveva passare da qui, proprio quel giorno. E’ stato un miracolo! Alle
17,43 si sono posizionati intorno al luogo dell’appuntamento. C’è stato uno
scontro a fuoco, molto violento. Da allora i militari presidiano la nostra
città, non se ne sono più andati, e gli Antibalaka non ci hanno più
attaccati”.
Padre Justin, al mattino, si alza alle
4,30. Prega, poi passa qualche ora con i suoi ospiti: “Mi raccontano le loro
storie, ci comunichiamo esperienze, emozioni, non solo informazioni. Abbiamo
scambi molto intensi”. Forse anche per questo, nonostante tutto, il morale del
parroco è sempre molto alto. La chiesa, la casa parrocchiale, gli uffici e la
sua stanza sono affollati di gente, il cortile è invaso dalle tende. Ma quel che
più conta, lo spirito dell’abbé Justin, è libero e felice: “Questa è la chiesa,
la nostra missione”.
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